Parise, quando il narratore è un reporter esistenziale
READING. IN DUO CON BEPPE CASALES UNA PROPOSTA A LIBRIAMO CHE È STATA CONDIZIONATA DA VARI DISAGI AMBIENTALI
Pregevole la scelta fra i testi dello scrittore-viaggiatore operata da uno Zeno Verlato teatralmente ancora acerbo
di Antonio Stefani
VICENZA
Ecco qua un lavoro che meriterà una replica, per un paio di buone ragioni. La prima, ottenere un risarcimento dei disagi ambientali patiti al debutto avvenuto l'altra sera ai Chiostri di Santa Corona nell'ambito del festival "Libriamo", dedicato quest'anno a Goffredo Parise nell'ottantesimo genetliaco. E meriterà, perciò, un impianto audio che funzioni, di non essere disturbato dalle chiacchiere provenienti dalla soprastante sala conferenze, né dall'andirivieni delle persone intente a passare in rassegna le bancarelle editoriali circostanti né, infine, dal progressivo e massiccio arrivo di pubblico per l'appuntamento immediatamente successivo, ovvero l'incontro con Corrado Augias.
La seconda ragione è che il contenuto di questo reading intitolato Esilio. Suite(-case) parisiana ordito da Zeno Verlato è davvero pregevole, rappresentando un patchwork di testi in grado di rendere omaggio allo scrittore vicentino non tanto come romanziere, quanto come vivido testimone del mondo e del proprio tempo. Il nostro mondo, il nostro tempo.
Il percorso ha un andamento circolare, aperto e chiuso dalla scena cimiteriale concittadina che fa da sfondo a I movimenti remoti, lo sconcertante incunabolo - pubblicato integralmente solo da poco - risalente al 1948, quando cioè "Edo" affrontava la maturità classica e per gli amici di allora era, tutt'al più, un giovanotto precoce e curioso, spiazzante e ribaldo. Invece, nascondeva già la tempra del narratore fatto e compiuto. Compare un misterioso Viaggiatore, in quel racconto. E un continuo viaggiatore sarà Parise per tutta la sua troppo breve vicenda terrena.
Una volta via dalla natia Vicenza "grigia e teatrale" come le colonne palladiane offuscate del dopoguerra, dopo Venezia, Milano, Roma, il mestiere e l'inquietudine («Sono un'anima in pena») lo porteranno in America, in Cina, a Parigi, nell'Oriente delle "guerre politiche", nel Biafra, a Mosca, eccetera, eccetera. Eccolo, dunque, in faccia ai marmi neri a insegne dorate della "funeraria" New York, eccolo formidabile reporter dal mattatoio Vietnam, o rapito visitatore d'un giardino-cripta zen consegnato alle pagine giapponesi de L'eleganza è frigida.
Tutte tappe di un cammino esistenziale prima ancora che culturale, dove il confronto tra vita e morte assume mille diversi risvolti, un cammino animato da una volontà di conoscenza ogni volta tradotto in una prosa di straordinaria efficacia, lucidamente analitica senza mai apparire - né essere - distaccata. Sino all'approdo ultimo, alla casa di Salgareda in riva al Piave, il luogo esatto e perfetto in cui riconoscersi, nel cuore di quel "Veneto barbaro di muschi e nebbie" che nessuno, proprio nessuno, ha saputo interpretare - con altrettanta forza, con eguale acume - come lui in quel memorabile articolo del 1983 capace di saldare antico e nuovo, di capire passato e presente d'una terra spesso straniera a se stessa e finalmente guardata, compresa, per quel che è.
Nell'arco di un'ora, Esilio coglie i nessi essenziali e brucianti di esperienze affidate al nitore di parole che sono lì apposta per essere scandagliate e ripetute. Nella lettura scenica che ne esce, l'estroso Zeno Verlato dimostra di non avere alcuna dimestichezza con il palcoscenico ma sa però quel che sta dicendo, avendolo scelto da sé con indubbia intelligenza, e perciò lo si può (in parte) perdonare, o quanto meno rimandare alla prossima, mentre Beppe Casales sfodera e sfrutta un bagaglio espressivo più attrezzato e redditizio. Funziona anche la scenografia "povera" - tavoli grezzi da manovrare come elementi simbolici, che svelano colori non casuali rispetto al copione - realizzata da Marcella Gabbiani. Pur non agevolati nell'attenzione, gli spettatori hanno apprezzato il duetto, tributandogli applausi calorosi.
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